Mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?

Correre il rischio di affidare la propria libertà all’altro: un’esperienza che potrebbe sorprendere. Ne parlano gli studenti dei corsi di laurea nelle professioni sanitarie di Bosisio Parini e Conegliano.

Quale importanza ha la fiducia nelle relazioni umane in generale e in quelle di cura in particolare? In un’epoca diffidente e sfiduciata, cosa pensano i giovani di quella scommessa sul mondo che ci fa rinascere ogni giorno, quando andiamo a scuola o ci innamoriamo, nelle relazioni sul lavoro o nei rapporti di amicizia? Ne abbiamo parlato con gli studenti dei corsi di laurea in Educazione Professionale, Fisioterapia e Terapia Occupazionale della Nostra Famiglia, nell’ambito di una tavola rotonda condotta dal professor Giuseppe Trevisi, docente al corso di laurea in Educazione Professionale dell’Università degli Studi di Milano e da sempre collaboratore per la formazione alla Nostra Famiglia. I ragazzi, in presenza a Bosisio Parini e in collegamento da Conegliano, hanno dato prova di una notevole capacità di riflessione, a conferma del fatto che la superficialità dei giovani è solo un pregiudizio, forse dettato dall’invidia di chi giovane non è più.

Si viene al mondo con fiducia
“Vengo dal Guatemala e già da piccola mi sono trovata a dare fiducia a persone che non conoscevo e che avrei conosciuto dopo. Ero troppo piccola per sapere cosa mi stava accadendo e quindi mi sono affidata in modo inconsapevole. Sono nata il 27 novembre e sono rinata 16 mesi dopo, quando sono stata adottata. Posso dire solo a posteriori di aver avuto fiducia”. Susana entra subito nel vivo della questione: ogni persona, nell’attimo in cui nasce, si affida a qualcuno in modo inconsapevole. E’ il tema iniziale della fiducia, sia in senso fisico sia in senso antropologico: chi vive bene questo primo passo nel mondo, poi nel corso della vita riesce a dare fiducia agli altri: “basti pensare all’importanza del tema dell’attaccamento e dei caregiver”, sottolinea il professor Trevisi. “Fiducia viene da fides, che in latino significa corda, la corda del liuto che doveva essere molto tesa per suonare. Quindi il termine rimanda a legare, tenere insieme, relazione: è una corda che tiene, l’alpinista senza corda cade”.

“Dovrebbe essere una costante per vivere bene, nelle piccole e grandi cose”, spiega Erika: “ci sono diversi gradi di fiducia, dipende dalle esperienze di vita che ognuno vive, ma dovrebbe essere una costante che rimane nel tempo, se vuoi vivere bene”.

Una posizione, quella di Erika, controcorrente rispetto al mondo di oggi, organizzato sulla diffidenza nei confronti dell’altro: “abbiamo tante leggi, regole, assicurazioni, vogliamo proteggerci da quello che gli altri ci potrebbero fare”, spiega Trevisi. “La nostra è la società dell’incertezza, non sappiamo di chi ci possiamo fidare e allora regolamentiamo tutto, in modo che l’uomo sia buono per legge”.

Eppure ci si costruisce, giorno per giorno, facendo esperienze positive: “per riuscire ad avere fiducia in me stessa ho bisogno di quel mattone in cui ho fatto esperienza di fiducia nell’altro, altrimenti mi destrutturo e non posso riuscire a stare in piedi”, riflette Giada. “Siamo come colonne, che si costruiscono nel momento in cui fanno un’esperienza positiva dell’altro. E quando viviamo esperienze negative, sta a noi ricostruire quel mattone mancante e farne qualcosa di positivo”.

“E’ proprio così”, concorda Chiara: “ho vissuto questa esperienza quando ho perso mio fratello. E’ mancato un pezzo della mia vita, ho dovuto ricostruire quel mattone che prima era parte di me e poi non c’era più. Se non fai questo lavoro di ricostruzione non riesci ad avere un rapporto empatico con l’altro”.

Alla base c’è la relazione o l’esperienza?
Ci si fida di più delle persone che ci possono comprendere perché hanno toccato con mano le stesse esperienze oppure degli amici, anche se non hanno vissuto gli stessi eventi? L’agorà è ricca, il dibattito vivace e gli studenti sono molto profondi.

“Ho provato il massimo della fiducia in un’esperienza forte di volontariato all’estero, quando mi sono trovata a vedere una cosa estremamente negativa a livello emotivo”, racconta Giulia: “ho vissuto un’emozione potente e, quando sono riuscita a condividerla con il gruppo che lavorava con me, ho provato fiducia. Ho invece difficoltà a raccontarla a chi non ha provato questa esperienza”. Anche Federica è della stessa idea: “ci si rispecchia nelle persone che hanno vissuto esperienze simili perché ci sentiamo capiti spesso anche senza finire le frasi, non c’è bisogno di troppe spiegazioni”.

Chiara invece pone l’accento sulla relazione e sull’atteggiamento dell’altro: “se è empatico, accogliente e disponibile, ci permette di aprirci, anche con un semplice abbraccio. Non è detto che debba per forza avere provato la stessa esperienza. Non racconto a caso cose mie ad una persona perché ha vissuto la stessa esperienza, io do più peso alla relazione”.

Cosa voglio farne del mio dolore? Il tema dell’altro
“Penso sia in gioco il tema della preziosità del proprio dolore, un gioiello che non si dà a chiunque”, riflette Giada: “è come oro liquido, non lo si padroneggia, ogni volta che si crede di averlo in mano poi si frange… Ecco, se un altro sputa sul mio dolore è un disastro. A volte si rischia di scivolare nella trappola delle esperienze comuni, mentre il mio modo di percepire un’esperienza è unico, diverso da tutti gli altri. Per quanto tu possa dire ‘ti capisco perché eravamo lì insieme’, non lo so se ci capiamo. Inoltre l’altra persona che ha vissuto la stessa esperienza ti può riversare addosso il suo contenuto emotivo. Non faccio del tuo dolore il mio, perché altrimenti non ti farei protagonista del tuo dolore”.

Qui entra in gioco il grosso tema del rapporto fiducia/libertà: quanto posso essere libero di dare fiducia? “E’ un rischio che vale la pena di correre”, aggiunge il professor Trevisi. “Basti pensare alla dinamica dell’innamoramento: quando ci si innamora, ci si mette a nudo e ci si affida completamente, si rischia la propria libertà e la si affida ad un altro. Dare fiducia è pertanto una delicata questione di rischio e beneficio: non posso conoscere in profondità l’altro, eppure gli affido la mia libertà, o almeno ci provo”. Il professore racconta l’esempio di una mamma affidataria di più ragazzini problematici: come poteva dimostrare la sua fiducia in loro, nonostante le difficoltà a cui la sottoponevano? “Questo ragazzo che fa disastri sa che comunque io ci sono”, rispondeva la mamma. “Il mio compito è esserci: ogni mattina che Dio manda sulla terra, quando preparo la colazione, c’è sempre tutto per tutti. La mia attività in quel momento è per loro una certezza”.

Fiducia e competenza: i contesti strutturati
“Se la fiducia è frutto più della relazione e meno dell’esperienza, come la mettiamo allora con i contesti strutturati e con i gruppi che hanno un’esperienza che li accomuna, come gli alcolisti anonimi?” riflette Susana. “In quel momento tutti stanno facendo un atto di fiducia, anche se sono seguiti o indirizzati”.

Ecco che qui, oltre all’esperienza, entra in gioco anche la competenza. Lo fanno notare Lorenzo, Silvia, Francesca, Martina, Maria e Luca, collegati da Conegliano. Per chi opera in ambito sanitario e ospedaliero, oltre al concetto di fiducia nella vita personale, va presa in esame la fiducia nella relazione operatore/paziente: “Come scelgo? Di chi mi fido? In base a quali criteri?” Si chiedono gli studenti. “Quando non posso scegliere perché ho patologie particolarmente gravi, come la mettiamo? Quando non so chi ho di fronte oppure non ho la possibilità di scegliere? Noi riteniamo che la fiducia dipenda dal contesto: se devi confidare un segreto, allora scegli un amico; se invece ti serve qualcuno di competente, la fiducia non si basa sulla persona e i suoi principi ma sulla sua competenza, su cosa concretamente si può fare”.

“E’ vero, concorda Giada, ma come operatori dovremmo farci qualche domanda, soprattutto nelle condizioni di estrema vulnerabilità: perché una persona anziana vuole un infermiere piuttosto che un altro o si lascia manipolare da un fisioterapista piuttosto che da un altro? Professionalità non è solo competenza, è anche restituire umanità al paziente: quando sei in condizioni di estremo bisogno, io ti riconosco come persona”.

Non è d’accordo Giacomo: “Sarò freddo, ma preferisco un medico che mi ignora quando sto bene piuttosto che mi tenga la mano quando sto male. Mi fa piacere se si informa su di me ma non è necessario. Al paziente interessa stare bene e non quello che pensa il medico: dopo non rimarranno in relazione, tranne in alcuni ambiti che prevedono un decorso lungo, come l’oncologia. A ciò si aggiunga che una relazione troppo stretta medico/paziente toglie l’obiettività”.

Si tratta di un approccio pragmatico, in linea con la maggior parte degli insegnamenti nell’ambito delle professioni sanitarie, basati sul funzionamento delle persone. Ma l’essere umano è solo funzionamento? “Una persona può essere totalmente dipendente dagli altri e diventare il miglior fisco del mondo, oppure essere sordo ed essere Beethoven”, precisa Trevisi. “Viviamo in un mondo prestazionale ma non si può lavorare solo sul funzionamento: dobbiamo avere attenzione e diventare buoni professionisti nelle competenze ma anche umanamente. Inoltre va considerato l’aspetto relazionale: c’è successo nell’intervento terapeutico non soltanto quando ho dato benessere alla persona, ma anche quando io ho ricevuto benessere. Questo è anche un buon modo per non andare in bornout”.

Una questione di legami e radici
Sebastiano individua due diversi modi di dare un nome alla fiducia, a seconda che si tratti di esperienza o relazione: “Direi che nelle esperienze di auto mutuo aiuto la fiducia crea un legame, lega chi ha un’esperienza comune. Per gli alcolisti è l’esperienza di abuso di alcol: eccomi, sono qua, probabilmente sono molto simile a voi, abbiamo storie molto diverse però c’è un filo conduttore che ci lega. Con l’amico invece, anche se non ha vissuto la mia stessa esperienza, non parlerei di legame ma di radice: ho radicato con lui una relazione di sintonia per cui gliela racconto; lo so che è in ascolto, molte volte ho dei feedback, altre volte no, ma anche quando non ce li ho il legame che ho radicato con lui mi fa mantenere la fiducia. Nelle relazioni professionali invece la fiducia si sposta. L’operatore, più che dare fiducia, la riceve e in cambio offre la relazione. Ci sono bambini che entrano subito in relazione, con altri è più difficile. Porrei l’attenzione anche sulla speranza: guai se non avessimo speranza, noi come operatori e loro come bambini…”. “Sì, è vero, ma direi che la fiducia è biunivoca”, puntualizza Giada: “non ho solo speranza che tu raggiunga gli obiettivi, ho anche fiducia che tu li raggiunga, perché io mi fido di te e parto dal presupposto che tu farai un gran lavoro”.

Non bastano le competenze, occorrono le virtù
“Credo che sia importante anche la virtù del coraggio, necessaria per instaurare una relazione sulla fiducia anche con chi potrebbe sembrare a primo impatto diverso da noi”, puntualizza Rebecca. “A volte potrebbe essere bello correre il rischio di condividere un’esperienza con qualcuno con cui non avremmo mai pensato di poterlo fare: è un’esperienza che potrebbe sorprenderci. E’ lo stupore delle cose belle: l’altro si rende conto se hai il coraggio di assumerti un rischio per lui, lo vede da quando apri la porta dell’ambulatorio”.

Ma come la mettiamo con le situazioni di emergenza, quando non c’è molto tempo di instaurare una buona relazione? “E’ una questione di pochi secondi, eppure sono secondi preziosi, soprattutto nelle relazioni di aiuto”, continua Trevisi. “Per esempio, il triage al pronto soccorso è un momento veloce e ad alta tensione ma con semplici domande posso calibrare la modalità di relazione con il paziente fragile, che sia un anziano o un extracomunitario. La contemporaneità del gesto virtuoso è importante, non c’è un prima e un dopo: avviene e contamina la competenza, che non è separata dall’essere virtuoso. Anche in sanità, non bastano le competenze, occorrono le virtù: essere attenti e rispettosi, guardare negli occhi, bussare alla camera di un paziente e chiedere: disturbo?”

Ma virtuosi si nasce o si diventa? “Si impara ad essere virtuosi se si frequentano luoghi virtuosi e se ci si accompagna a persone virtuose”, conclude Trevisi. “Già lo diceva Aristotele: le virtù sono tratti del carattere ma si possono anche imparare. E’ strategico per le nostre professioni ma anche per le nostre vite e il nostro benessere”.

Cristina Trombetti