Liberiamo dal silenzio chi non ha voce
Occorre consentire a tutti di esprimersi perché non riuscire a parlare non significa non poter comunicare.
Lo scrittore americano David Foster Wallace, venuto in Italia per la prima volta per ritirare un premio disse: “È molto difficile e per molti versi umiliante trovarmi in un Paese che non è mio e vedermi ridotto alle condizioni di un bambino. È davvero avvilente, ti senti un fallito”; quando tutti intorno a lui parlavano un'altra lingua, un premio Pulitzer perdeva la possibilità di comunicare efficacemente, e si percepiva bambino. Ma prosegue “Tuttavia, ho notato che in senso profondo è anche bello…sono molto più attento ai visi e ai segnali emotivi delle persone, e proprio come un bambino sono più sensibile e recettivo”. La stessa lingua inglese ci collega ad un altro Premio Pulitzer, la scrittrice statunitense Jumpa Lahiri, che decide di trasferirsi in Italia e di scrivere di questo Paese con gli occhi di un’americana ma in lingua italiana. Imparare una nuova lingua per vivere in un nuovo mondo, per nascere una seconda volta. L’apprendimento però non è immediato, chi sta accanto cerca di interpretare i nuovi segnali, non sempre verbali, non sempre trasparenti e in tal senso non è totalmente scontata la capacità di farlo.
Se è comprensibile sentirsi fuori posto in un altro Paese, non è altrettanto immediatamente afferrabile la sensazione di chi si percepisce paese straniero negli occhi di altre persone; quelle persone che, pur avendo gli stessi connotati etnici, non condividono la tua stessa lingua comunicativa. Effettivamente, le difficoltà comunicative di persone con quadro clinico di differente complessità, inficiano notevolmente le relazioni con il mondo esterno e condizionano in maniera importante anche l’autopercezione del singolo. La descrizione di tale situazione è concretamente presentata dal caso di Ruth Sienkewicz-Mercer, ragazza con grave disabilità motoria e comunicativa che scrisse con i suoi occhi il libro “I raise my eyes to say yes” scansionando lettera per lettera, l’alfabeto che le veniva presentato. “Quando tu non puoi parlare e la gente crede che la tua mente è handicappata come il tuo corpo è veramente difficile cambiare la loro opinione…”. “Fino a che la gente ha pensato che il mio cervello non servisse a niente e che le espressioni del mio viso e i suoni che emetto fossero senza significato, io sono stata condannata a rimanere senza voce...”.
Un grave deficit comunicativo può avere importanti ricadute relazionali, linguistiche, cognitive e sociali. A differenza dei parlanti che spesso stereotipizzano la comunicazione e tendono a prevalere in una conversazione, i “non parlanti” hanno la tendenza ad essere passivi e a ridurre qualsiasi sforzo nell’essere compresi. Spesso sono persone ritenute incapaci di comprendere e provare emozioni, mal interpretate e scarsamente considerate nei loro tentativi di comunicazione.
Per i parlanti è la parola che incoraggia, che spiega, che consola.
Nel mondo di una persona non verbale è un gesto che può curare, è un sorriso che può sostenere, è uno sguardo che può rincuorare, è persino il tentativo di provare a capire o a dare voce all’altro, che salva.
Non riuscire a parlare non significa essere senza pensiero, così come non riuscire a parlare non significa non poter comunicare. Non per tutti però è possibile comunicare senza sforzo (Beukelman e Ray, 2010).
Comunicare, dal latino communis (cum insieme – munis compito, dovere) derivato da commune letteralmente che compie il suo dovere con gli altri. La comunicazione, pertanto, si identifica come un dovere del singolo all’interno di un gruppo il cui buon funzionamento dipende dalla somma dei dinamici contributi di ogni membro. Se è vero che un soggetto si esprime come può all’interno di una collettività, dipende dall’altro interpretare e comprendere. Si esplica così il compito di ognuno di noi: consentire a tutti di esprimersi, dal più grande al più piccolo, e qualora la forma di comunicazione non sia quella che ci si aspetterebbe, si dovrebbe tentare di decodificare, comprendere e agire di conseguenza.
È insieme la vera rinascita. Ritrovarsi pur non parlando la stessa lingua e liberare dal silenzio chi da solo era destinato a non avere voce.
Benedetta Greco e Sara Longo
Logopediste La Nostra Famiglia di Lecce