Mi diverto a bacchettare i potenti, ma mi sento più utile quando racconto storie positive

Arguto e brillante, Massimo Gramellini sulla stampa e in TV punzecchia la nostra coscienza e spesso suggerisce una prospettiva di vita diversa, più umana.

“Tutto il mondo affrontava la stessa prova. Qualcuno ne approfittò per cambiare”. Massimo Gramellini prova a raccontare la pandemia attraverso gli occhi di un bambino di nove anni nel suo romanzo “C’era una volta adesso”. Mentre il mondo da un giorno all'altro si rinchiude in casa, il piccolo Mattia si ritrova costretto nel microcosmo di un condominio di ringhiera a fronteggiare il suo più grande nemico: quel padre che l'aveva abbandonato quando aveva solo tre anni. Mentre tutto si stravolge, l'ansia e la paura prendono il sopravvento, la scuola viene racchiusa in un computer, i vicini cantano dai balconi e gli amori vivono storie impossibili, il piccolo Mattia, grazie all'aiuto di una nonna che dai libri e dalle stelle ha appreso la tenera saggezza della vita, e di una sorella ribelle e affettuosa, comincerà a capire qualcosa di nuovo e importante: diventare grandi significa anche provare a scommettere sugli altri e imparare a fidarsi. Persino dei più acerrimi nemici. Massimo Gramellini, con la sua straordinaria empatia, racconta in una storia di sentimenti e speranze la sorprendente scoperta di potersi continuamente reinventare.

Da dove può ripartire questa scommessa? Dal coraggio, dalla curiosità, dalla capacità di lasciarsi sorprendere, dalla fiducia o da che altro?

Come tanti altri momenti di rottura della Storia (penso alle guerre) la pandemia è un’occasione per dismettere vecchie abitudini e assumerne di nuove. Ma serve coraggio e anche un po’ di incoscienza.

Qual è l’arma migliore contro il pessimismo?

L’accettazione. Per cambiare una realtà, devi prima accettarla, guardarla negli occhi e amarla, anche se ti fa male. Solo in quel momento comincia a modificarsi. Perché sei cambiato tu.

Il fondatore della Nostra Famiglia diceva che occorre “fare straordinariamente bene le cose ordinarie”. Non è un po’ anche la sua cifra narrativa quando racconta – e quindi rende straordinarie – anche storie di gente comune? Cosa si può scoprire fuori dai riflettori?

Come esiste la banalità del male, esiste anche quella del bene. Ogni giorno c’è una madre che si occupa di un figlio in difficoltà, un figlio che si occupa di una madre malata, un volontario che accudisce un essere umano, un animale, un giardino, un museo. Piccoli gesti silenziosi che si contrappongono a quelli rumorosi di chi compie il male. Ma se il mondo è ancora in piedi nonostante tutto, è perché i gesti positivi sono un po’ di più.

 

Si trova più a suo agio con la parola che bacchetta i potenti o con quella che racconta storie positive di riscatto e di resilienza?

Mi diverto di più a bacchettare i potenti, ma mi sento più utile quando racconto storie positive. Senza contare che il racconto del bene è molto più difficile: il rischio di passare per retorici è sempre dietro l’angolo.

Con le parole le piace di più far ridere o commuovere?

Io mi diverto di più a far ridere, ma l’importante è suscitare una reazione emotiva. Come diceva Dickens (mi pare): “se non puoi farli ridere, falli piangere; se non puoi farli piangere, falli ridere.”  Il ragionamento scorre meglio sui binari di un sentimento forte e condiviso.

Il giornalismo è cambiato con la pandemia?

No, però anche nel giornalismo, come in tutto il resto, la pandemia ha accelerato certi processi già in atto. Il declino del giornale cartaceo tradizionale e la proliferazione delle informazioni, tra le quali tocca al lettore districarsi, individuando quelle di cui fidarsi.

Rivoluzione digitale: i social ci isolano o ci riconnettono al mondo?

Entrambe le cose. I social sono come il fuoco. Con il fuoco puoi scaldarti, ma puoi anche bruciarti. Dipende sempre dall’uso che ne fai.


Alla moltiplicazione dei luoghi dove le persone si informano (social, siti, app, podcast) corrisponde un aumento di conoscenza?

Corrisponde un aumento di informazioni, ma non sempre le informazioni accrescono la conoscenza.

Vede intorno a sé più persone propense a parlare o ad ascoltare?

Immagino sia una domanda retorica: tutti parlano e nessuno ascolta! Il guaio è che non ascoltiamo nemmeno noi stessi.

Cristina Trombetti