L’identità patchwork
Spesso giochiamo ruoli diversi in contesti diversi, senza essere consapevoli delle nostre contraddizioni. Siamo individualisti ma anche capaci di sorprendere e sfoderiamo ogni giorno un capitale sociale straordinario.
Intervista a Nando Pagnoncelli, Presidente di Ipsos
Tra l’adagio “Italiani brava gente”, che ci dipinge come un popolo accogliente, solidale e tollerante, e la proverbiale mancanza di senso civico dell’Italiano medio, c’è un’infinita gamma di comportamenti che definiscono un’identità di popolo complessa, spesso individualista ma anche capace di sorprendere. “Negli ultimi due decenni avevamo visto l’accentuarsi di importanza attribuita al sé, quindi ai diritti, e un affievolirsi del senso di appartenenza ad una comunità più ampia, cioè i doveri. In qualsiasi scelta, da quella personale e privata a quella pubblica, tendeva a prevalere la dimensione individuale”, ci spiega Nando Pagnoncelli, ricercatore sociale e analista della pubblica opinione, Presidente di Ipsos Italia dal 2006.
“Il Covid ci ha riportato invece a riflettere sull’interdipendenza, sul senso di appartenenza, sul valore della comunità, intesa non nella sua accezione difensiva, ma come cum-munus, condivisione del dono. E’ tornata la fiducia nelle istituzioni, nella competenza che riassegna valore al tempo. Siamo usciti dalla dittatura del presentismo, dell’immediato e del non mediato, dell’uno vale uno, secondo il quale ci si poteva confrontare alla pari con un luminare della scienza su un tema che si ignora ma ci si illude di sapere”.
Quindi una reazione sostanzialmente positiva?
Distinguerei tra prima e dopo la pandemia. La prima fase della pandemia è stata caratterizzata da tanti aspetti positivi, direi in modo non inedito, perché nelle situazioni di emergenza gli Italiani sono in grado di dare il meglio di sé. Nella seconda ondata una parte di questi aspetti si è fortemente affievolita, perché la crisi economica è asimmetrica e selettiva.
Ma torniamo al primo tempo. Abbiamo visto un capitale sociale straordinario e un grosso tentativo di far fronte all’emergenza: non c’erano mascherine, camici, disinfettanti, ventilatori polmonari… ma ecco che sono entrati in gioco il volontariato organizzato e non, le raccolte fondi, le riconversioni produttive delle imprese. Io ho vissuto la pandemia in uno degli epicentri - sono bergamasco - e quando il sindaco Gori ha fatto appello ai giovani perché andassero a fare la spesa per gli anziani, in un’ora sono arrivate 500 telefonate. Quando c’è stato da costruire l’ospedale da campo presso la Fiera di Bergamo, la Confartigianato ha fatto appello agli artigiani, sperando ne arrivassero una quindicina: ne sono arrivati 200 il primo giorno e 180 il secondo e, con I tifosi della nostra squadra, hanno costruito un reparto di terapia intensiva in dieci giorni. Questa è l’Italia e questa Italia non nasce con la pandemia perché, pur in presenza di quell’individualismo a cui accennavo, ci sono 7 milioni e mezzo di cittadini che svolgono attività di volontariato, 348 mila organizzazioni che operano nell’ambito del non profit e un italiano su due che fa almeno una donazione nel corso dell’anno.
Quindi “Italiani brava gente”?
La realtà è più complessa di come sembra, non possiamo dividere l’Italia in buoni e cattivi. Viviamo una sorta di frammentazione identitaria, che Remo Bodei definiva io patchwork: si tratta di un io multiplo e malleabile, come se una persona giocasse ruoli diversi in contesti diversi, senza essere consapevole delle sue contraddizioni. Negli anni ‘90 individuammo che c’era l’operaio del Nord Italia, iscritto alla Fiom Cgil, elettore della Lega che andava a messa la domenica e non sentiva nessuna dissonanza valoriale tra questi ambiti. Anche la fede non guida più il comportamento delle persone ma si tende a prendere dal messaggio evangelico quello che è più in sintonia con il proprio stile di vita, una sorta di religione fai da te. Per sorridere, immaginiamo il codice della strada, che è la dimostrazione lampante della frammentazione dell’identità: se la stessa persona va in bicicletta reclama certe cose, se va in auto ne reclama altre, se è pedone altre ancora, come se la strada fosse la zona franca dell’etica, dove ognuno interpreta un ruolo in relazione a quello che sta facendo. Quindi gli italiani sono buoni e cattivi nello stesso tempo, ma finché non c’è la consapevolezza di questa contraddizione implicita e soprattutto della responsabilità individuale non andremo molto lontano.
E noi come ci percepiamo?
C’è una incapacità, che emerge da tutte le ricerche che facciamo, a riconoscere gli aspetti positivi del Paese, come se implicasse negare le criticità. Da una ricerca fatta recentemente in 19 paesi del mondo sulla percezione del proprio Paese, emerge che il 15 per cento degli italiani dichiara di avere un giudizio positivo sull’economia italiana, a fronte del 59 per cento dei peruviani sull’economia del loro Paese, quando i fondamentali economici del Perù e dell’Italia sono totalmente diversi. Solo un italiano su cinque sa che siamo il secondo Paese per manifatture in Europa e che abbiamo oltre 4 milioni e 200 mila imprese che operano in Italia. Solo il 10 per cento sa che siamo il Paese europeo con il più alto tasso di riciclo di rifiuti, eppure la gente ha l’immagine di Roma e dei cassonetti.
Forse il problema sta nel fatto che ci raccontiamo male?
Certo. Qui vige, ahimè, la regola del “good news, no news”, una buona notizia non è una notizia. Eppure, come ci insegna l’inserto del Corriere “Buone notizie”, c’è anche una parte di lettori che si vuole riconoscere nelle cose che funzionano e vanno bene. Ripenso al monito del presidente Ciampi quando parlava di patriottismo dolce: è un fattore identitario, di orgoglio, non vuol dire negare il tasso di disoccupazione giovanile e tutte le cose che non vanno, significa però avere anche uno sguardo diverso che passa anche attraverso il racconto del Paese. L’Italia ogni tanto sorprende per le cose che fa, e questo non da oggi. Noi siamo quelli che hanno inventato la Protezione Civile, quelli che prendono le ferie per dare una mano ai paesi terremotati, siamo gli Alpini che vanno in soccorso alle persone, quelli delle missioni umanitarie in giro per il mondo… Questi sono elementi identitari, sono ancoraggi comuni ad un modello diverso di crescita, che va dall’enciclica del Papa alla testimonianza di Greta. Proviamo a raccontarci un po’ meglio: non vuol dire essere stucchevoli e mielosi ma significa essere consapevoli di quello che siamo.
Cristina Trombetti