Pensare, fare, sentire
La conoscenza teorica, la conoscenza esperienziale e quella affettiva: il patrimonio della Nostra Famiglia in un’originale metafora dantesca.
“Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno XXXI, ( VV 119-120).
In questo anno in cui ricorre l’anniversario della nascita del Sommo Poeta viene facile andare a questi versi molto conosciuti, studiati, sviscerati.
Dante ricorre alla figura di Ulisse per incarnare la figura positiva dell’uomo che dedica la propria esistenza a spegnere la sua sete di conoscenza. Si conclude infatti con questi versi l’esortazione dell’Ulisse dantesco, con questo epifonema rivolto ai suoi compagni di viaggio, dove Dante riconosce la propria essenza e dà definizione a ciò che è un manifesto indelebile nella memoria letteraria, ma anche filosofico- esistenziale di colui che legge, di colui che vive.
E noi, in quanto viventi e operanti in un mondo di vite speciali, dove l’alterità si fa più pregnante, siamo chiamati alla conoscenza più sublime.
Come per Dante e Ulisse, la conoscenza è un viaggio, un percorso dove il passo è dettato dall’incontro con l’altro. Ed è dal cercare e trovare l’altro che prende vita la conoscenza.
Nell’ambito del nostro operare quotidiano il sapere è il bagaglio di partenza. Non è possibile dare dignità ed efficacia ad un incontro se non si possiedono gli strumenti teorici della sapienza, se il pensiero non ha posto radici sul terreno nutriente del rigore metodologico, inteso come competenze formative dove le varie professionalità in campo utilizzano e condividono le basi di una ricerca scientifica applicata.
Ma il solo sapere, il solo riflettersi su sé stessi, ci lascerebbe “all’Inferno”, in un mondo incompiuto. Così come è accaduto ad Ulisse nella Cantica citata. E’ importante conoscere la cosa quanto conoscere il come, e il come si nutre di esperienze.
La conoscenza (cum-gnosi) è verità ottenuta per mezzo della comprensione dell’esperienza. E’ istante nel quale conoscente, cognizione e conoscitore si incontrano e si trasformano. Ecco dunque l’esperienza condivisa, il momento nel quale operatore (conoscente) intraprende un viaggio con l’utente (conoscitore, colui che “porta” una nuova competenza) fornendogli la sua sapienza, che lo farà crescere, acquisire nuove autonomie, nuova dignità, una propria bellezza.
La conoscenza dell’operatore diventa così autocoscienza del possesso di informazioni connesse tra loro, le quali prese singolarmente, hanno un valore e un’utilità inferiori. Dunque nel nostro contesto lavorativo ciò si traduce in un percorso che si rende utile solo se frutto di un lavoro di squadra, in cui multidisciplinarietà diventano sinergia e, nel concreto, una rete di servizi alla persona.
Bambini e ragazzi, sorretti da questa rete, a loro volta crescono perché un ambiente unico consente loro un’interazione continua e reciproca, dove la quotidianità di un contesto che è anche “casa” permette agli apprendimenti di consolidarsi attraverso routine reiterabili, con tempi di acquisizione adeguati e rispettosi, e infine, di poter generalizzare nuove abilità e autonomie perché in fondo tutti gli interlocutori parlano “lo stesso linguaggio” inclusivo.
Vi è una dimensione affettiva in questo viaggio che contempla dunque il pensare e il fare?
Torniamo per un istante alla nostra similitudine letteraria. La guida nella parte più faticosa del viaggio è, per Dante, Virgilio; una figura che ci appare autorevole, ma che rivela nei confronti del discepolo un atteggiamento paterno. Virgilio è una buona guida perché nutre dell’affetto e, nonostante la disparità di ruolo, prova un sentimento altamente umanizzante, la tenerezza.
Il poeta consegna a Virgilio le sue fragilità e i suoi talenti, un po’ come fanno le famiglie dei nostri utenti affidandoci i loro figli. Qui l’esperienza affettiva si fa tema delicato. L’investimento professionale si sovrappone ad un vissuto che diventa necessariamente un “sentire” l’altro. In chi opera vi sono senza dubbio differenze individuali nell’affrontare l’investimento emotivo, perché in fondo ogni operatore varca la soglia del proprio luogo di lavoro portando con sé la sua storia, le sue fatiche, le sue risorse personali.
Ciò che però deve guidarci è l’attenzione all’altro. Lavorare con passione non è un dono della sorte, è senza dubbio legato alla capacità di provare compassione, uscendo da atteggiamenti pietistici, ma praticando nella quotidianità il sentimento del “provare emozioni con” che le scienze umane definiscono “empatia”.
Tale dimensione permette a ciascun operatore di trarre il meglio dalle proprie conoscenze e di accompagnare ciascun bambino affidato alla parte più compiuta di sé.
Monica Blaseotto
Educatrice del Presidio di Riabilitazione di San Vito al Tagliamento