Superare il dolore per scoprire la bellezza di rinascere
Ha conosciuto l'orrore dentro di sé e ha saputo raccontarlo, ma poi ha sentito forte il richiamo della vita, proprio là dove è più fragile e calpestata. Perché “è tanto più umano chi vive in maniera profonda, senza far finta di credere alla recita della normalità, che spesso è abbastanza patetica”.
Intervista a Daniele Mencarelli
di Cristina Trombetti
“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi”. Poeta, scrittore, narratore, Daniele Mencarelli dà voce a generazioni di invisibili e riscopre l’umanità più vera là dove è fragile e calpestata, nel reparto psichiatrico del romanzo “Tutto chiede salvezza”, o nel mistero insondabile e scandaloso della sofferenza dei bambini, raccontato ne “La casa degli sguardi”. Ma non solo: balzato alla notorietà grazie ai Premi Strega e Flaiano, Mencarelli nei suoi romanzi racconta di sé e mette a nudo la sua sofferenza, “una malattia invisibile, all'altezza del cuore o del cervello" che lo espone - carne viva - all’insensatezza del vivere. “Mi sono ferito con tutta la vita che potevo”: non si fa sconti Daniele, e non fa la morale, ma racconta l’alcol, la tossicodipendenza, la disperazione sua e di chi gli stava intorno. Una storia drammatica eppure piena di grazia.
Daniele, dici che da quando sei nato non hai fatto altro che portare disordine. Perché?
Ho sempre vissuto dentro una vitalità che era estrema, ero un ragazzino che si metteva costantemente alla prova, che non conosceva il concetto del rischio, che amava provocare… In breve, sono sempre stato il contrario di quello che si direbbe un bambino posato. Già dall’infanzia ero portatore di quelle domande di senso e di significato che ancora oggi sono la mia vita. Per dirla con Pasolini, sono sempre stato disperatamente e insperatamente vitale.
Ogni genitore sperimenta il dolore della propria impotenza di fronte alla incomprensibile sofferenza del figlio. Come stanno i tuoi genitori adesso?
Ho avuto genitori straordinari: oggi sono ultraottantenni, sono loro i miei figli e sono contento di poter restituire tutto quello che ho chiesto loro e che a un certo punto ha rischiato di far esplodere una famiglia. Mia madre è rimasta anche negli ultimi anni dell’alcolismo, è stata l’unica che ha sempre creduto che potessi uscirne, che tutto quello che facevo non era per cattiveria ma per una forma di autodistruzione, perché non riuscivo a convivere con me stesso. Mio padre e i miei fratelli la vedevano lentamente morire e iniziavano a spingere per mandarmi in una comunità, per difendere quella che era una moglie e una madre. La stoffa del genitore si vede nel momento in cui diventa reale la richiesta di aiuto. Tanti genitori mi hanno detto che non sarebbero mai riusciti a fare quello che mia madre ha fatto per me ma la vita non è fatta di teorie o immedesimazioni: vista da fuori nessuno riesce ad immedesimarsi, vista da dentro uno deve giocoforza trovare le risorse per sopravvivere.
La tua scrittura alterna parole crude, carnali, fisiche a parole di altissima spiritualità. Questa salita e discesa del linguaggio riflette il tuo modo di essere?
Io sono un uomo profondamente pendolare rispetto ai temi che sono rimasti vivi in me in maniera carnale e viscerale. Direi però che ho più famigliarità con la speranza e quindi con uno sguardo benevolente rispetto all’uomo. La mia pendolarità è proprio nel destino ultimo, tra i momenti in cui riesco a sentire questo destino più benevolo e i momenti contrari in cui mi lascio andare a un nichilismo che continua ad essere totalmente distruttivo. La mia vita è ancora un pendolo tra questi due poli ma la scrittura mi ha dato uno strumento per proteggermi. E poi, ogni volta che supero il dolore, scopro la bellezza di rinascere.
La fragilità è uno dei temi dei tuoi romanzi, insieme alla domanda prepotente e dolorosa di senso. Sei riuscito ad arrivare, se non ad una risposta, ad accettare il dolore degli altri, soprattutto dei bambini?
Il dolore, se condiviso, dimostra una cosa: che è molto più naturale di quello che l’uomo contemporaneo pensi. Se ormai 8 famiglie italiane su 10 convivono con il tema del disturbo psicologico nelle tre generazioni che vedono nonni, genitori e figli, quando arriveremo a 10 su 10 saremo o tutti malati o nessun malato. Ciò rende esplicito il fatto che probabilmente l’uomo contemporaneo ha perso quella funzione fondamentale che è il dialogo attorno a certi temi, che li rendeva più sopportabili perché condivisi. Oggi questa condivisione è la mia forma di salvezza. Non ho trovato una salvezza spirituale, anche se la cerco quotidianamente, ma trovo salvezza nel momento in cui tanti adulti, tanti ragazzi vivono come me le stesse domande. Ecco, è ritrovarsi nelle domande e nella condivisione del dolore la salvezza. Aggiungo un’altra cosa: il male assoluto, rispetto ad ogni forma di male che colpisce l’individuo, è l’isolamento, che lo moltiplica all’infinito. La condivisione, sentire tante consanguineità e conoscere tanti fratelli che condividono con te quello sguardo sull’esistenza, è già spezzare quel peso.
La scienza cerca di spiegare, contenere, catalogare. Ma l’uomo può fare affidamento solo sul calcolo? Che fine hanno fatto le domande che appartengono all’umano?
Abbiamo nascosto sotto al tappeto qualsiasi domanda che riguardi la nostra natura. Però i nostri figli non si accontentano più di questa recita. Il problema vero è che noi abbiamo sotto le mani - parlo da genitore di due figli - generazioni che non si accontentano più di far finta di niente e che pongono interrogativi sulla natura dell’uomo. Il loro problema è a chi fare queste domande. Non possiamo vivere a nostra insaputa, facendo finta di non sapere di avere una natura che è fatta di vita e di morte, di destino, di tempo, tutte forze che non controlliamo noi e che da sempre hanno incuriosito, affascinato ma anche terrorizzato l’uomo.
E quelli che non rientrano nei binari di questo sviluppo apparentemente perfetto e lineare – i cosiddetti scarti – che fine fanno? Tu in questi scarti hai trovato la tua via…
E’ una visione talmente stretta, un solco talmente profondo e stretto… Io al di fuori ho trovato paradossalmente persone straordinariamente vive, che spesso hanno compiuto grandi sbagli ma che non hanno mai creduto alla recita dell’uomo che non deve farsi domande. C’è gente veramente viva, in maniera commovente: sono quelli che magari con la vita fanno a cazzotti ma che vivono più intensamente. In fondo un malato psichiatrico, un ex tossicodipendente, un ragazzo che ha vissuto la disavventura terribile della malattia oncologica, tutti questi individui possono essere maestri, perché hanno vissuto sulla propria pelle cose che altri conoscono solo per teorie. Bisogna intenderci su cosa sia umano: è tanto più umano chi vive in maniera profonda, senza far finta di credere alla recita della normalità che spesso è abbastanza patetica. Su questo il COVID è stato una sveglia mondiale perché ha scardinato questa narrazione: ha fatto capire a tutti che esistono un destino e alcune forze che noi non controlliamo e che possono cambiare il corso degli eventi. Essere umani vuol dire essere consapevoli che non siamo al riparo di tutto, che siamo esseri transitori e che dobbiamo fare di questa transitorietà un punto di forza e non di debolezza.
Dopo la tua esperienza all’ospedale pediatrico Bambin Gesù hai detto che “negarsi la speranza qui dentro è impossibile”: sei credente?
Sono un aspirante credente. Non mi ritrovo in una fede, non ho dei sacramenti a cui mi affido, non riesco ad abbandonarmi a un credo. D’altro canto non riesco a vivere senza questo obiettivo perché sono convinto che la ricerca spirituale sia una delle ricerche più naturali per l’uomo. Non possiamo vivere affidando alla morte quello che amiamo: da sempre l’uomo considera questo profondamente ingiusto e anch’io semplicemente non riesco a concedere alla morte quello che ho. Sono un uomo e come tutti gli uomini spero che possa esistere una risposta a questo desiderio di eternità.
La casa degli sguardi
Mondadori, 2020
Daniele, giovane poeta in profonda crisi, non ha più uno scopo. Ma vuole provarci ancora, vuole sopravvivere e lo farà attraverso il lavoro. Firma così un contratto con una cooperativa legata al Bambino Gesù, l’ospedale pediatrico di Roma. Una casa speciale, in cui incontra molti sguardi che lo spingeranno a porsi domande scomode. Ma gli offriranno anche le risposte.
Tutto chiede salvezza
Mondadori, 2022
Ha vent’anni Daniele quando, in seguito a una violenta esplosione di rabbia, viene sottoposto a un TSO: trattamento sanitario obbligatorio. Al suo fianco, i compagni di stanza del reparto psichiatria che passeranno con lui la settimana di internamento coatto: cinque uomini ai margini del mondo, inquietanti e teneri, sconclusionati eppure saggi, travolti dalla vita esattamente come lui.