Imparare con i propri tempi, partecipare alla vita della classe

L’integrazione è un’opportunità perché le diversità sono un arricchimento per tutti i bambini.

L’Italia fu la prima nazione a introdurre il diritto di istruzione dei bambini con disabilità nelle scuole ordinarie: tale processo ebbe inizio negli anni ’70 e si è sviluppato negli anni con significative evoluzioni in ambito legislativo, concettuale, didattico ed educativo.

Il più importante documento legislativo che ha dato forza e valore al concetto d’integrazione è la Legge Quadro 104 del 1992, dove viene enunciato l’impegno per realizzare il rispetto della dignità della persona umana, la massima autonomia e partecipazione, il recupero funzionale e sociale, il superamento dell’emarginazione[1]. Si introduce la certificazione di Handicap, la figura dell’insegnante specializzato per il sostegno. Vengono definiti gli strumenti (Scheda di segnalazione, Profilo Dinamico Funzionale e Piano Educativo Individualizzato) per la presa in carico scolastica, garantendo così la concretezza del diritto all’istruzione e dell’educazione dell’alunno con disabilità.

Il concetto di integrazione è suscettibile a molteplici significati: può assumere il significato di normalizzato, standardizzato[2], dove la pedagogia speciale ha il compito di normalizzare il soggetto concentrandosi sulla disabilità anziché sviluppare e potenziare le capacità residue o incrementare nuovi comportamenti che gli permetterebbe di esprimere sé stesso.

Nel 2001 l’OMS pubblica la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (ICF) e nel 2007 anche ICF – CY, versione per bambini e adolescenti. Viene abolito il termine handicap, che fornisce una connotazione negativa del concetto di disabilità, e la disabilità non viene più considerata una malattia, ma riceve una nuova concettualizzazione e viene definita come conseguenza di una complessa relazione tra la condizione di salute e i fattori personale e sociali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. L’integrazione viene sostituita dal concetto di inclusione: l’inclusione ha inizio all’interno delle scuole che devono offrire a tutti i bambini, a prescindere dalle loro caratteristiche individuali, l’opportunità di vivere e di lavorare insieme, ma non si limita solo al mondo scolastico, ma percorre tutte le sfere vitali e sociali e diventa un processo culturale e mentale. In quest’ottica la pedagogia diventa centrata sul bambino, sulle sue risorse, sulla sua possibilità di partecipazione sociale. La pedagogia dell’inclusione si realizza quando si riconosce che i bisogni educativi speciali dei bambini con disabilità non sono tali perché differenti dagli altri, ma in quanto richiedono di pensare e organizzare in modo diverso le prassi educative per rispondere alle necessità loro ma anche di tutti gli altri bambini. Si può parlare di autentica educazione inclusiva se il processo è accompagnato da un pensare speciale che guida il percorso di vita della persona.[3]

Ripensare l’integrazione scolastica delle persone con disabilità in termini inclusivi avviene con il D. Leg. 66/2017 “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”. In tale decreto l’ICF è il riferimento fondamentale, di tipo culturale e strumentale, attraverso cui intervenire per trasformare in senso inclusivo l’azione educativa rivolta agli alunni con disabilità.[4] 

Pertanto, la scuola italiana è una scuola inclusiva, dove la pedagogia speciale e la didattica speciale si sono evolute favorendo la possibilità di attivare molteplici progetti per permettere a tutti gli studenti di partecipare appieno alla vita scolastica.

Per fare questo, tutto il percorso educativo deve essere pensato, progettato e organizzato da tutti gli attori (dirigente, insegnanti, collaboratori, assistenti, educatori, genitori) che interagiscono con lo studente, per permettergli di rinforzare le sue capacità presenti o potenziali, costruendo per lui percorsi alternativi finalizzati a fargli raggiungere quegli obiettivi che sono comuni a tutti e necessari alla formazione dell’essere umano, al diventare persona capace di vivere nel proprio contesto sociale. Non è sufficiente che lo studente con disabilità venga inserito in una classe in un rapporto individualizzato con una o più figure adulte (insegnante di sostegno, assistente) chiedendogli di apprendere gli stessi contenuti dei compagni, pur semplificati, ma spesso non compresi o troppo lontani dalla sua realtà. La presenza della persona con disabilità in classe diventa risorsa solo se le scelte educative e didattiche sono flessibili, guardano alla persona valorizzando le sue risorse, in un contesto dove tutti sono diversi con specifici bisogni. La diversità deve assumere un significato valorizzante all’interno di una comunità al fine di assicurare a tutte le persone la possibilità di esprimersi e sviluppare la propria identità.[5] 

Un’educazione diventa inclusiva se vi sono adulti che credono in tale processo e non pensano alla scuola solo come luogo di apprendimento, ma come un luogo dove tutti i bambini possono imparare con i propri tempi, possono partecipare alla vita della classe, possono comprendere che le diversità sono un arricchimento, solo così diventa normalità. Scopo dell’inclusione è quello di rendere possibile, per ogni individuo, l’accesso alla vita “normale” per poter crescere e svilupparsi totalmente[6]

Sonia Bortolot
Pedagogista
La Nostra Famiglia di Conegliano