Toccare il cielo con tre dita
La conquista dell’Everest dopo una malattia che gli porterà via entrambe le gambe e sette dita delle mani: “ho piantato una bandiera per tutti quelli che non si arrendono”.
Intervista ad Andrea Lanfri
di Cristina Trombetti
Il 21 gennaio 2015 Andrea Lanfri come tutte le mattine si sveglia presto ma è debole e sente un gran freddo. E’ costretto ad alzarsi dall’abbaiare di Kyra, la sua Siberian Husky che non si rassegna all’immobilità del padrone e probabilmente capisce che qualcosa non va. Ha 43 di febbre, avverte subito un grande dolore in tutto il corpo e poi ci sono quelle strane macchie blu sulle braccia… fa appena in tempo a chiamare la madre e la guardia medica e da quel momento entra in coma. Si risveglierà un mese e mezzo dopo, nel letto di un ospedale con una diagnosi terribile, che gli porterà via entrambe le gambe e sette dita delle mani: meningite fulminante con sepsi meningococcica. “Quella mattina un piccolo batterio stava cercando di portarmi via la vita, ma ha fallito” racconta Andrea: “quando in ospedale mi avevano detto che non avrei più camminato, ho avuto una reazione di puro istinto. Mi sono svegliato senza gambe e allora mi sono detto: ok, allora corro”.
Andrea, ti sei dato un colpo di reni da subito. E’ stato più difficile con la testa o con il corpo?
Senz’altro a livello fisico. La mia mente era carica, voleva fare ma il corpo non riusciva a starle dietro. In tutta la mia avventura ospedaliera io ero distrutto fisicamente: oltre alle amputazioni avevo i sensi compromessi, la vista era calata tantissimo, avevo perso 26 chili perché ero stato nutrito artificialmente due mesi e mezzo.
Quindi mentalmente sei rimasto strong…
Certo, avevo il mio obiettivo davanti, un po’ come i cavalli quando hanno il paraocchi. Pensa che ho fatto le protesi da corsa prima di quelle che uso per camminare… Ricordo una grande forza che mi ha spinto a riprogrammare la mia vita: ho avuto una reazione di dispetto e ho fatto l’esatto opposto di quello che il batterio si aspettava. Ho imparato di nuovo a camminare, a mangiare, a scrivere e a correre. La mia voglia di vivere superava tutte le batoste che avevo ricevuto e così ho iniziato a programmare con gli amici nuove avventure. Ricordo ancora le prime uscite in montagna e le delusioni per i fallimenti. Eppure dopo ogni caduta ripartivo, fino a quando è arrivata la mia prima vetta conquistata dopo l’operazione: è stato il Monte Grondilice, nelle Alpi Apuane: una gita facile, che fin da bambino ero solito fare in tutta scioltezza. Ebbene, quella volta c’era il dolore, un dolore che è rimasto per tutta l’ascesa e anche dopo, ma si è sbloccato qualcosa. Ero riuscito ad addomesticare il male.
Da lì non ti sei più fermato, fino alla conquista dell’Everest. Ricordi ancora quell’emozione?
Come fosse ieri. Quando eravamo in cresta ho visto la vetta a circa 300 metri: calcola che è una distanza che si percorre in due o tre ore. Ero così euforico che mi è venuto da accelerare il passo. E’ stata un’emozione incredibile: avevo raggiunto quel punto che negli allenamenti di anni avevo solo immaginato, un po’ come in un film. Quell’inversione di boa a cui arrivi dopo un lungo viaggio, fatto di allenamenti, organizzazione, burocrazia e tante altre cose che mai avrei creduto di fare. Ho riguardato i filmati dell’ascesa mia e di Luca Montanari, il mio compagno di cordata: abbiamo sempre il sorriso. Ci siamo goduti ogni momento, la preparazione giorno dopo giorno, il contatto con la natura e poi l’incredibile emozione della cima. La fatica l’ho lasciata in vetta ma la soddisfazione la porterò sempre con me.
8.848 metri di altezza: per chi l’hai fatto?
Non solo per me. Ho piantato una bandiera per tutti quelli che non si arrendono. Ho sentito la responsabilità per molte persone, anche per quelli che mi hanno seguito virtualmente, grazie al segnale del mio satellitare: al mio ritorno ho saputo che quando il puntino della mia posizione ha segnato la vetta raggiunta, tutti i miei amici a casa hanno festeggiato.
Ti sono capitati momenti di paura?
Certo, ma non ho avuto paure materiali: la mia paura principale è stata quella di non poter più godere delle cose semplici, come le passeggiate in mezzo al bosco col cane. Ricordo quei sei mesi artificiali, in una stanza in cui non c’erano finestre… Mi facevo portare in corridoio, dove potevo vedere fuori: stavo ore a guardare la bellezza dell’Appennino e della pioggia… E’ stata questa la molla di tutto.
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Credit photo Ilaria Cariello