I bisogni dei genitori: chi se ne prende cura?
Non è vero che nella nostra società il bambino è al centro, ma forse il genitore è ancora meno visto, soprattutto se ha un figlio con disabilità. Ne parlano le psicologhe e gli psicologi della Nostra Famiglia.
Viviamo in una società iperspecializzata, che da un lato ha il faro puntato sulla performance del bravo genitore, che porta i figli a scuola, li iscrive a piano, a danza e a karate con annesso corso di inglese, perché senza inglese non si va da nessuna parte, e dall’altro non vede il genitore e i suoi bisogni. Che sono tanti, soprattutto per quanto riguarda le mamme e i papà dei bambini con disabilità.
Ne abbiamo parlato con le psicologhe e degli psicologi della Nostra Famiglia Barbara Veronelli, Chiara Steffenini, Silvia Busti e Fulvio Clemente Rota nell’ambito di una tavola rotonda sul ruolo dei genitori nello sviluppo del bambino. A guidare i lavori Carla Andreotti e Lorenzo Besana.
“I genitori dei bambini con disabilità devono contemporaneamente affrontare due compiti giganteschi: primo, devono prendersi cura del proprio bambino che ha bisogni speciali”, spiega Chiara Steffenini: “alcuni di loro sono stati preparati dal tempo della gravidanza se hanno ricevuto una diagnosi precoce, altri invece vi si sono imbattuti al momento del parto. Ebbene, mentre si occupano del loro bambino sviluppando risorse genitoriali iperspecializzate (imparano a dare l’ossigeno, a somministrare i pasti e i farmaci...), contemporaneamente si portano dentro una ferita, una sofferenza emotiva che non possiamo trascurare. Come diceva Bowlby, se vogliamo prenderci cura bene dei bambini dobbiamo partire dai genitori e tornare a considerare la famiglia nel suo insieme”.
Dall’approccio globale all’erogazione del servizio
“Le cose sono cambiate molto rispetto al passato”, spiega Carla Andreotti: “un tempo nei Centri dell’Associazione c’era un coinvolgimento esistenziale tra famiglia e responsabili dell’attività educativa e riabilitativa. Nella convinzione di esercitare solo una responsabilità delegata temporaneamente dalla famiglia, che rimaneva il principale riferimento di ogni bambino, si cercava in ogni caso di stabilire un legame fiduciario e di mantenere rapporti intensi e significativi sotto diverse forme: visite, rapporti epistolari, rientri in famiglia, incontri informativi e formativi, coinvolgimento in azioni di sensibilizzazione sociale e di pressione a livello politico per rappresentare i diritti dei bambini con disabilità”.
In ambito sanitario oggi l’approccio ai servizi è cambiato sostanzialmente: le famiglie arrivano ai centri della Nostra Famiglia in quanto unità di offerta del sistema socio sanitario e si relazionano al servizio come utenti, con precise richieste di prestazioni. La presa in carico del bambino si attiva come risposta circoscritta a una domanda specifica, con tempi definiti, generalmente brevi, a scapito di un approccio più globale: “forse è stato un cambiamento obbligato, dettato dall'evoluzione della normativa e dell'approccio della politica sociale verso la sanità”, riflette Fulvio Clemente Rota: “fatto sta che assistiamo a un cambiamento sia della domanda della famiglia, sia dell’offerta di servizi da parte dell'ente, che oggi bypassa quell’aiuto, magari non tecnico, ma senz’altro umano ed esistenziale”.
Le domande dei bambini
Ma come sono oggi queste famiglie? È proprio vero che la loro domanda è solo di tipo tecnico o chiedono ancora un approccio globale e vicinanza?
“Sono famiglie che per arrivare alla diagnosi devono affrontare un iter complicato, che passa attraverso tante strutture diverse”, spiega Barbara Veronelli: “sono anche famiglie che hanno di fronte un bambino che cresce e fa domande: perché ho l’insegnante di sostegno? Perché devo mettere il tutore? Mi dà fastidio e non posso giocare a calcio… Chi glielo spiega? Un genitore non può essere lasciato solo a dare queste risposte, ha bisogno di essere sostenuto, altrimenti abbiamo il rischio di aggiungere alla disabilità un pezzo di psicopatologia sia sul bambino sia sulla famiglia”.
La vulnerabilità dei genitori
Tristezza, ansia, impotenza… sono sentimenti all’ordine del giorno per i genitori di questi bambini, che però stridono e non sono contemplati dalle richieste della società: “E’ vero, concorda Silvia Busti, non c’è spazio per la tristezza ma prima o poi il cassetto si apre e la vulnerabilità del bambino si incontra con quella del genitore. Se non si prende coscienza di questo fatto, oltre al danno cognitivo o motorio si sviluppa psicopatologia. Dobbiamo chiederci come promuovere un attaccamento più sicuro e sviluppare uno stile di parenting positivo: cosa che è sempre possibile, vale per tutti i genitori, al netto delle difficoltà di partenza. Cosa rende uno stile genitoriale più efficace? La ricerca scientifica ci dice responsività, disponibilità emotiva, sensibilità ed empatia, capacità di sintonia e di incoraggiare l’individualità”.
Le famiglie migranti
Ci sono inoltre problemi che vanno anche al di là della genitorialità, problemi di coppia, di ansia, di depressione, che aumentano nel caso delle famiglie di migranti: “si tratta di una variabile impegnativa”, spiega la dottoressa Veronelli: “di solito il migrante non è l’elemento più fragile ma è la persona su cui investe tutta la famiglia, che rimane nel Paese di origine ma si aspetta dei risultati. Ebbene, in presenza di un figlio con disabilità e senza il supporto della famiglia allargata, il progetto del migrante fallisce. Chi se ne prende cura? Tocchiamo tutti con mano la carenza di strutture e di personale, sia nei consultori che nei centri psicosociali. Se il sostegno sociale alla genitorialità è scarso per gli italiani, lo è ancor più per gli stranieri. E pensare che basterebbe un pezzo di lavoro per far riprendere la loro vita”.
La variabile Covid
A ciò si aggiunga la variabile Covid, vissuto dalle famiglie come un evento altamente soggettivo: “in pandemia c’è chi è stato meglio e chi è stato peggio”, spiega la dottoressa Busti: “mi viene in mente la mamma di un ragazzino di prima superiore, che mi ha raccontato di come suo figlio durante il Covid sia stato bene perché, dietro ad uno schermo, per una volta è stato uguale agli altri”.
“Direi che ci sono stati due momenti diversi: un inizio spaventoso, non solo per il covid in sé, ma anche perché è stato un tempo senza supporti, senza la scuola, la riabilitazione, con tutto il carico sui genitori”, le fa eco la dottoressa Veronelli. “Poi le famiglie hanno trovato un equilibrio loro e forse anche dei momenti piacevoli: meno pressati dagli impegni si sono concessi un tempo di gioco… D’altro canto il Covid ha dato tanto in termini di cambiamento e di supporto anche per noi: in quel momento noi psicologi siamo stati un importante elemento di supporto, siamo entrati nelle case e abbiamo raccolto uno spaccato su come funzionava la quotidianità delle famiglie per poi poter lavorare. Un po’ come accadeva un tempo nelle visite domiciliari… Per esempio, è stata l’occasione per recuperare la figura del papà che lavorava in smart working”.
Il problema della rete
“Da non sottovalutare anche lo strapotere e la diffusione di Internet, che ha veramente cambiato la vita dei bambini dalla nascita e in tutte le fasi della vita ha un peso enorme”, aggiunge il dottor Rota. “I genitori sono spaventati, spesso indecisi e confusi sugli interventi da fare nella gestione e nell'uso dei device: in questi ultimi due anni ho incontrato almeno quattro ragazze con problemi di autolesionismo per disturbi d'ansia e ansia depressiva, partiti come comportamento assunti dalla rete. Si tratta di forme di dipendenza trasversali al livello culturale della famiglia, che mettono in difficoltà anche i genitori con professioni di livello socio culturale medio alto”.
Un nuovo modello a partire dalla ricerca
Eppure, per ottimizzare il trattamento, non si può non prendere in carico la famiglia, altrimenti il rischio è che si disperdano energie, del bambino, dei genitori, degli operatori. Per questo l’Associazione sta cercando di rivedere le modalità di presa in carico della famiglia, partendo dai suoi bisogni, come spiega Lorenzo Besana: “Si è avviato in Lombardia un ciclo di incontri di intervisione con il dottor Rosario Montirosso, responsabile per l’inquadramento dello sviluppo socio-emozionale, la caratterizzazione delle competenze dei genitori e l’intervento a supporto della genitorialità, per i bambini 0-6 in carico alla linea di Patologia Neuromotori e DISRARE (Disabilità intellettiva, Sindromi/malattie rare).
Questo ciclo di incontri si colloca nel percorso formativo già avviato negli scorsi anni e intende portare avanti la collaborazione tra IRCCS e CdR come obiettivo delle linee di patologia. E' richiesto e messo a fuoco come un importante momento di confronto e crescita professionale per gli psicologi di entrambe le linee di patologia, accomunate dal tema della genitorialità nella disabilità in tutte le sue sfaccettature. Gli incontri di intervisione vogliono offrire uno spazio di condivisione e confronto della propria esperienza clinica”.
Puntare sulle risorse dei bambini e dei genitori
Concludendo, gli psicologi concordano: la disabilità è un fattore di rischio che impatta sul genitore e a cascata sul bambino: se il genitore sta male, non costruisce una relazione di attaccamento sicuro, che consente anche al bambino di stare bene nel mondo, di tirar fuori le sue risorse e di esplorare la vita in maniera fiduciosa: “anche i bambini con disabilità hanno grandissime risorse”, conclude Veronelli “sono capaci di leggere gli aspetti emotivi e affettivi, possono dare un input per il cambiamento agli adulti. Ed è vero anche il contrario”.
Cristina Trombetti