Ci prendiamo cura, come gli artigiani

“E’ un modo di lavorare che risulta fruttuoso per i nostri pazienti, ma che fa crescere anche noi, ci insegna la vita, ci porta a rivedere la scala dei valori, ci fa leggere e affrontare anche le situazioni della nostra vita con occhi, pensieri e comportamenti nuovi”. 

Era il 3 Gennaio del 2000, quando è incominciato il mio impegno lavorativo presso il Centro di Ostuni de La Nostra Famiglia: fresca di specializzazione, con una preparazione prevalentemente teorica (come di solito si ottiene dal percorso universitario), totalmente sprovveduta in tema di riabilitazione, ma con tanta voglia di sperimentarmi, di impegnarmi, di crescere.

Era la fase dell’aspirante artigiana!

Dopo un primo momento di disorientamento, se non di panico (!), la vitalità e l’entusiasmo che scaturiscono dall’effetto fascinoso della conoscenza e dalla possibilità di confronto con altre professionalità, con persone ricche di esperienza e di sapere, a cui devo esprimere il mio tributo di riconoscenza per essermi stati, forse a loro insaputa, preziosissimi maestri.

Era la fase della gioiosa apprendista artigiana!

Quindi giù a capofitto nel lavoro, faticoso ma stimolante, e la crescita progressiva della mia competenza.

Che però, da un certo momento in poi, ha incominciato ad andare a braccetto con una serpeggiante sensazione di impotenza, che minacciava a più riprese di sopraffare la gioia…

Perché in questo lavoro, spesso, ti devi confrontare con risultati inferiori, anche di molto, a quelli attesi e sperati. Carenza di risultati che ti fa oscillare fra la sensazione di una tua inadeguatezza operativa e la percezione di un compito molto più grande delle tue risorse. In questo lavoro, prima o poi arrivi a chiederti il senso di quello che fai e, se sei un medico, a sentirti un medico di serie B, perché tu non guarisci e non salvi le vite!

E’ stata la fase dell’apprendista delusa, che vedeva svanire il sogno di diventare una gioiosa artigiana dispensatrice di salute e di gioia!

Poi, per vie differenti e impreviste, attraverso un mosaico di circostanze ed esperienze che si andava via via componendo, si è fatto strada in me il dubbio che il fallimento e la delusione potessero essere frutto di una lettura, una prospettiva sbagliata.

Ho cominciato a chiedermi se non stessi commettendo l’errore metodologico, il grossissimo errore metodologico, di definire io, preventivamente, sulla base di preconcetti e generalizzazioni, quello di cui ciascuno dei miei pazienti aveva bisogno. Errore probabilmente conseguente ad una tentazione che è sempre in agguato nel lavoro di medico: l’aspettativa, il desiderio di “normalizzare”, di ricondurre la disabilità nei binari dello sviluppo normotipico! Anche noi, come i genitori dei nostri bambini, attraversiamo la fase dell’incapacità, resistenza, o quanto meno difficoltà, a comprendere ed accettare che il bambino disabile non va normalizzato ma “realizzato”!

E da quel momento l’apprendista è tornata in attività!

Ho capito.

Ho capito che per lavorare in modo produttivo e gratificante, si deve in primo luogo imparare a guardare e ascoltare i nostri pazienti… e i loro genitori.

Proprio in questo si gioca la nostra professionalità: nella capacità di utilizzare le nostre conoscenze, la nostra esperienza per ascoltare, e poi riformulare se necessario, e tradurre in un progetto concreto, plausibile, realizzabile, quanto esplicitamente o, più spesso implicitamente, ci viene chiesto e raccontato. Ci si rivolge a noi certamente non per ricevere una sentenza, ma per essere aiutati… aiutati a capire, ad uscire dal disorientamento, a dare un senso a tutto, ad individuare uno scopo ed una strada!

E’ un modo di lavorare, ritengo, che richiede competenza e preparazione, perché presuppone una profonda conoscenza della disabilità nelle sue diverse espressioni cliniche, e che non è assolutamente inferiore a quello proprio di altre specialità.

C’è stata una circostanza, in particolare, nella mia esperienza a La Nostra Famiglia, in cui mi sono detta: “anche noi possiamo salvare vite!”.

Da allora, penso di essere diventata ARTIGIANA della GIOIA, artigiana in mezzo a tanti altri ARTIGIANI. E ce lo testimoniano i grazie commossi di genitori e pazienti che ci salutano, a conclusione di un pezzo importante della loro vita trascorso a La Nostra Famiglia.

E’ un modo di lavorare che chiama in causa non solo il medico, o il tecnico in genere, ma anche la persona, che risulta fruttuoso per i nostri pazienti, ma che fa crescere anche noi, che ci insegna la vita, che ci porta a rivedere la scala dei valori, che ci fa leggere e affrontare anche le situazioni della “nostra vita” con occhi, pensieri e comportamenti nuovi, che ci può rendere ARTIGIANI GIOIOSI, oltre che dispensatori di gioia.

Un ultimo pensiero, che potrebbe apparire un po’ come un’ipoteca su tutto questo, ma che sento di dovere condividere.

Il prendersi cura è la caratteristica propria del LAVORO ARTIGIANALE. Un lavoro prezioso e paziente che, in questo nostro tempo (chiamatelo culturale, storico, politico, scegliete voi) rischia di essere soffocato e snaturato da meccanismi che, se da un lato fanno emergere, o addirittura provocano, un bisogno crescente, dall’altro chiedono che ad esso si risponda con qualità ed eccellenza, ma seguendo le logiche, non sempre a mio parere giustificate e sane, del lavoro industriale. Con il rischio di generare non opere artigianali, ma surrogati!

E’ un sentire, un timore diffuso questo, in tutti i contesti lavorativi, avvertito da tutti coloro che vivono il proprio lavoro con responsabilità e si interrogano su come conciliare le congiunture economiche di questa nostra epoca, le carenze multiple del nostro territorio, con il desiderio di non tradire sé stessi e il senso del proprio impegno lavorativo.

Ecco, anche io mi interrogo, trovando a sprazzi piccole, estemporanee risposte, ma sempre convinta che il riferimento da non perdere di vista è nella nostra “missione”, il mandato del nostro fondatore ad “operare bene per il bene”, anche poco… in sintesi a proseguire coraggiosi sulla strada di quel modo di lavorare ARTIGIANALE, che ci ha resi sinora “diversi” e che solo può continuare a generare messaggi di accoglienza, di speranza, di GIOIA.

Rita Galluzzi
Responsabile Medico, Centro di Riabilitazione di Ostuni (Br).