Il dialogo tra fede e scienza

Nella cultura contemporanea ci sono ambiti in cui si giocano sfide filosofiche, teologiche ed antropologiche molto rilevanti, come la genetica, le neuroscienze e l’intelligenza artificiale.
Le riflessioni del Cardinale Gianfranco Ravasi.

Il dialogo in un’epoca secolarizzata
Il dialogo, cioè l’incontro del Lógos, la Parola divina, col lógos, cioè il discorso umano, è alla base del programma stesso del cristianesimo e questo è anche il progetto che sta alla base del “Cortile dei Gentili”, istituzione voluta da Papa Benedetto XVI per il confronto tra credenti e non credenti, sulla base simbolica dello spazio del Tempio di Gerusalemme a cui potevano accedere anche i “gentili”, le gentes, i pagani.

Da un lato, quindi, si deve escludere ogni integralismo fondamentalistico, perché noi dobbiamo «essere pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi, ma questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1Pietro 3,14-15). D’altro lato, però, i «semi del Lógos» diffusi nelle culture, riconosciuti e valorizzati, non devono condurci a un vago sincretismo o relativismo, ma rendere luminosa l’identità e la specificità evangelica. Quindi, non un duello ma un duetto nel quale i due discorsi, pur conservando il loro volto differente, si ascoltano e sono in armonia, proprio come accade in musica tra un basso e un soprano che non falsano le rispettive voci in un impossibile «unisono», ma le coniugano tra loro.

Ora è molto arduo indicare tutte le vie nelle quali noi cristiani dobbiamo intrecciare questo dialogo armonico, perché la cultura contemporanea è molto complessa e soprattutto rivela spesso una radicale allergia alla religiosità: è il fenomeno classificato col termine secolarizzazione. Più correttamente dovremmo parlare di «secolarismo» che relega la fede nell’aura sacra del tempio e la riduce a culto o a scelta interiore, scollegata da ogni incarnazione nella storia e nella società.

Oppure è quell’atteggiamento prevalente di «apateismo», cioè di apatia religiosa o di indifferenza morale ben illustrata da papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «Il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede posto all’apparenza... Si ha l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite» (n. 62). E il pontefice aggiunge riguardo a questo secolarismo: «Esso tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo; con la negazione di ogni trascendenza ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, dando luogo a un disorientamento generalizzato» (n. 64).

Noi sappiamo che esiste, però, una «secolarità» necessaria e positiva tipica del cristianesimo che rigetta ogni sacralismo e teocrazia, memore del lapidario asserto di Cristo: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 21,21). La secolarità autentica rende la Chiesa più profetica e non solo istituzionale e giuridica; entra nel confronto con le istanze della società senza volerle determinare e dominare, ma offrendo il contributo della sua visione morale e spirituale. È, questa, l’anima stessa dell’Incarnazione, il centro della concezione cristiana fondamentale, destinata a incrociare il divino con la storia, senza confusioni e senza prevaricazioni («Il Verbo divenne carne», Giovanni 1,14).

In questa prospettiva, tra i molteplici percorsi che si dovrebbero affrontare nella piazza della modernità secolare, noi ora imboccheremo una strada che nella mappa della cultura contemporanea risulta particolarmente ampia e trafficata, quella ove si confrontano scienza e fede. È su di essa che si giocano sfide teologiche e pastorali molto rilevanti, senza per questo ignorare che esistono altri ambiti tematici che rivestono importanza e che sarebbero ugualmente luoghi in cui entrare, dialogare e interagire. Pensiamo allo stesso concetto di «natura umana» o di «verità», alla questione del gender, ai problemi sollevati dall’ecologia e dalla sostenibilità, magnificamente illustrati dalla Laudato si’, agli intrecci perversi tra finanza ed economia, al nesso tra estetica e cultura e quindi tra arte e fede, tradizionalmente esaltati dalla cosiddetta via pulchritudinis, un nesso ora non più armonico ma dialettico, e così via.

Un triplice confronto
Nel rapporto tra scienza e fede noi ora vorremmo puntare su un orizzonte specifico che coinvolge l’antropologia, uno dei capisaldi fondamentali della fede cristiana che unisce, come si diceva, in Cristo divinità e umanità. Quella che noi proponiamo è una trilogia tematica che è basata su altrettanti profili divenuti decisivi nell’attuale ricerca scientifica: la genetica, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale.

La genetica
Con la scoperta del DNA e della sua flessibilità e persino della sua modificabilità la genetica ha registrato esiti differenti: da un lato, si è sviluppata la ricerca volta a eliminare le patologie; d’altro lato, però, si è ipotizzato l’uso dell’ingegneria genetica per migliorare e mutare lo stesso fenotipo antropologico prospettando un futuro con il genoma umano radicalmente modificato.

Questa manipolazione del DNA genera un delta ramificato di interrogazioni di varia indole a partire da quella di base sulla stessa specie umana: questi nuovi modelli antropologici saranno ancora classificabili nel genere homo sapiens sapiens? Quale impatto socio-culturale avrà la disuguaglianza tra individui potenziati attraverso la modificazione genetica rispetto agli esseri umani «normali»? Si dovrà elaborare una specifica identità sociale ed etica per questi «nuovi» individui?

Ma le questioni si fanno roventi a livello teologico: questi interventi nel cuore della vita umana sono compatibili e, quindi, giustificabili con la visione biblica dell’uomo come luogotenente o viceré o «immagine» del Creatore, oppure sono da classificare nel peccato capitale-originale del voler essere «come Dio», nell’atto della superbia adamica, giudicata nel c. 3 della Genesi?

Le neuroscienze
Un ulteriore settore ove la ricerca si sta inoltrando in modo deciso è quello delle neuroscienze. Per la tradizione platonico-cristiana mente/anima e cervello appartengono a piani diversi, l’uno metafisico, l’altro biochimico. La concezione aristotelico-cristiana, pur riconoscendo la sostanziale autonomia della mente dalla materia cerebrale, ammette che quest’ultima è una condizione strumentale per l’esercizio delle attività mentali e spirituali. Un modello di natura più «fisicalista» e diffuso nell’orizzonte contemporaneo non esita invece, anche sulla base della teoria evoluzionista, a ridurre la mente e l’anima radicalmente a un dato neuronale. La discussione è, al riguardo, estremamente complessa e vede una fitta rete di analisi e di questioni variamente affrontate.

È necessario sottolineare che è di scena anche qui l’identità umana che certamente ha nel cervello-mente (comunque si intenda la connessione) uno snodo fondamentale per cui, se si influisce strutturalmente su questa realtà, si va nella linea di ridefinire l’essere umano. La sequenza dei problemi filosofico-teologico-etici si allunga, allora, a dismisura: come collocare in un simile approccio la volontà, la coscienza, la libertà, la responsabilità, la decisione, la calibratura tra gli impulsi esterni e quelli intrinseci, l’interpretazione delle informazioni acquisite e soprattutto l’origine del pensiero, della simbolicità, della religione, dell’arte, e in ultima analisi l’«io»?

L’intelligenza artificiale
Questa prospettiva ci conduce, senza soluzione di continuità, all’ultimo orizzonte altrettanto impressionante, vasto e complesso, e in un’incessante evoluzione quello delle «macchine pensanti», cioè dell’intelligenza artificiale. Allo stato attuale la cosiddetta «terza età della macchina» e la robotica hanno generato macchine sempre più autonome. È indubbia la ricaduta positiva nel campo della medicina, dell’attività produttiva, delle funzioni gestionali e amministrative. Ma, proprio in quest’ultimo settore, sorgono quesiti sul futuro del lavoro che è concepito nella visione classica e biblica come una componente dell’ominizzazione stessa (il biblico «coltivare e custodire» e il «dare il nome» agli esseri viventi e non). La possibilità di squilibri sociali non può, quindi, essere ottimisticamente esclusa.

Gli interrogativi si fanno forse più urgenti sul versante antropologico, dato che già oggi alcune macchine hanno una notevole capacità di «appropriarsi» della parola, creando così in modo autonomo informazione. C’è, poi, ancor più rilevante il versante etico. Quali valori morali possono essere programmati negli algoritmi che conducono la macchina pensante a processi decisionali di fronte a scenari che le si presentano davanti e nei cui confronti deve operare una decisione capace di influire sulla vita di creature umane? Le inquietudini riguardano in particolare la cosiddetta «intelligenza artificiale forte» (artificial general intelligence o Strong AI) i cui sistemi sono programmati per un’autonomia della macchina fino al punto di migliorare e ricreare in proprio da parte di essa la gamma delle sue prestazioni, così da raggiungere una certa «autocoscienza».

È ciò che hanno già liberamente descritto gli autori di romanzi o film di fantascienza, ma che ha sollecitato le reazioni nette e allarmate anche di alcuni scienziati come Stephen Hawking che, forse con qualche eccesso, ha affermato: «Lo sviluppo di una piena intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana... L’intelligenza artificiale andrà per conto suo e si ridefinirà a un ritmo sempre crescente. Gli esseri umani, limitati da un’evoluzione biologica lenta, non potrebbero competere e sarebbero superati».

Altri sono, al riguardo, più ottimisti di fronte a questo sviluppo perché essi si affacciano con fiducia su quel post-/transumanesimo che per ora è vago ma non per questo meno problematico. Come possono fare la genetica e le neuroscienze, così anche le nuove tecnologie sarebbero in grado di trasformare le capacità fisiche e intellettuali degli esseri umani per superarne i limiti. Qualcosa del genere si intravede nella fusione con gli organismi umani di elementi tecnologici, come l’impianto di chips per rafforzare la memoria o l’intelligenza del soggetto (il cyborg) o come il trasferimento (download) di un sistema digitale nel cervello così da eliminarne i limiti... È spontaneo reagire con qualche apprensione di fronte a queste fughe in avanti, soprattutto quando si hanno le prime avvisaglie di derive incontrollabili.

Finora è sembrato netto il discrimine tra macchina con intelligenza artificiale e persona umana secondo l’asserto del filosofo statunitense del linguaggio John Searle per il quale i computer posseggono la sintassi ma non la semantica, in pratica non sanno quello che fanno. Ma le prospettive della citata «intelligenza artificiale forte», che è convinta di poter varcare questa linea di demarcazione con l’avvento di macchine non solo pensanti ma autocoscienti, rimescola le carte e richiede nuove attenzioni e interrogazioni e forse anche qualche demitizzazione. Questo, però, non significa assumere atteggiamenti di rigetto radicale nei confronti del triplice scenario che abbiamo abbozzato, né tanto meno nei confronti della scienza. Essa, infatti, non è riducibile alla pura e semplice «tecnica», ma – quando è genuina e rigorosa – tende ad avere una più ampia visione «umanistica».

È significativo quanto aveva affermato, alcuni anni prima della sua morte avvenuta nel 2011, Steve Jobs, il fondatore di «Apple» e quindi una delle figure emblematiche del primato trionfale della tecnica, in un discorso agli studenti dell’università di Stanford (2005): «La tecnologia da sola non basta. È il matrimonio tra la tecnologia e le arti liberali, tra la scienza e le discipline umanistiche a darci quel risultato che ci fa sorgere un canto nel cuore». E nelle discipline umanistiche sono da inserire anche la teologia e la filosofia morale.

Card. Gianfranco Ravasi